Solennità della Natività di San Giovanni Battista
Ordinazione presbiterale di fra’ Nicola Summo
Basilica di Santa Fara – Bari
La liturgia a cui stiamo partecipando è tutta intrisa di gioia! La gioia di due giusti, Zaccaria ed Elisabetta, che sebbene anziani, vedono finalmente appagato il loro desiderio di avere un figlio. Dio li ha visitati e il loro amore è diventato fecondo e ora possono stringere tra le loro braccia colui che è segno della misericordia divina, non solo nella loro vita ma anche in quella di tutto il popolo: il piccolo Giovanni, come viene chiamato proprio per riconoscere che, attraverso di lui, Dio “ha fatto grazia”. È la gioia dello stesso Giovanni, della cui nascita la Chiesa si sta oggi rallegrando: egli aveva sperimentato questo sentimento già nel grembo materno, quando Maria – che portava in sé colui che è la fonte della vera gioia – era arrivata nella sua casa e aveva salutato Elisabetta. È la gioia del popolo d’Israele, rappresentato dai vicini e parenti, che si rallegrano con Elisabetta per la grande misericordia che il Signore ha manifestato nella loro vita. La gioia di Israele sarà ancora più intensa quando, una volta diventato adulto, in tanti accorreranno ad ascoltare la parola, forte e dirompente, di colui che, come profeta dell’Altissimo, prepara la manifestazione di Gesù, Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo (cf Gv 1,29.36).
Ma questa sera la gioia è palpabile anche sul volto e nel cuore di tutti noi, popolo santo di Dio, che assistiamo ad un “parto” di carattere soprannaturale. Sì, quel che sta avvenendo dinanzi ai nostri occhi è davvero una nascita. La madre Chiesa sta generando al ministero un nuovo pastore, che è frutto della fecondità dello Spirito Santo, che permea continuamente della sua presenza la comunità dei discepoli di Cristo. Egli, come un giorno aveva fatto con la Vergine Maria, la copre con la sua ombra e le permette di essere madre feconda, mentre tu, carissimo fra’ Nicola, sei il segno tangibile che lo Spirito Santo è all’opera nella Chiesa. Per questo, soprattutto tu sei inondato di gioia, una gioia che impregna ogni fibra del tuo essere al punto da farti esclamare, quasi modulando un canto d’incomparabile bellezza, con convinzione profonda: “io ti rendo grazie: hai fatto di me una meraviglia stupenda!”. Le parole del salmo 138, che abbiamo pregato dopo la prima lettura – ne sono certo – le senti particolarmente tue stasera, perché ti aiutano a sentire vicino quel Dio che ti ha intessuto nel grembo di tua madre, che ti scruta e ti conosce, che intende da lontano i tuoi pensieri, che ti ha ricamato come un capolavoro e che oggi ti riempie del suo Spirito, per mandarti a portare il lieto annunzio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, (…) per consolare tutti gli afflitti, per dare agli afflitti di Sion olio di letizia invece dell’abito da lutto, veste di lode invece di un cuore mesto, come dice il profeta Isaia parlando del servo del Signore (cf Is 61,1-3).
Il Signore dà a tutti noi, cari fratelli e sorelle, la gioia di vivere questa sera un evento di straordinaria bellezza. Attraverso i santi segni della liturgia, afferra con la forza del suo amore il giovane che è qui dinanzi a noi e lo riveste di luce perché porti la sua salvezza fino agli estremi confini della terra (cf Is 49,6). In ogni esperienza vocazionale avviene qualcosa di straordinario. Il Signore sceglie, chiama e invia perché vuole che degli uomini, su cui si è posato il suo sguardo, portino ad altri uomini l’annuncio della salvezza. E non si tratta di una missione circoscritta ad un luogo o ad una comunità ristretta. No! “È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti di Israele”, dice il Signore al suo eletto. “Tu porterai la mia salvezza fino all’estremità della terra”. La chiamata di Dio non è per coltivare un orticello chiuso, dove si sta bene insieme a pochi eletti, in un circolo vizioso di autocompiacimento reciproco. Dio chiama per andare, uscire, percorrere le strade spesso fangose del mondo, per raggiungere tutti coloro che “vivono nelle tenebre e nell’ombra della morte” e ai quali Dio si rivela, attraverso colui che viene “a visitarci dall’alto come sole che sorge”: il Signore Gesù, figlio, amato del Padre. Dio chiama e riempie il chiamato di luce, chiedendogli di seguire Colui che è la luce vera: “Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (Gv 8,12).
La parola profetica di Isaia, ascoltata nella prima lettura, oggi si compie nella vita di questo giovane, che è già tutto di Dio per la professione religiosa, e che in questo evento di grazia che stiamo celebrando riceve quasi una conferma del dono di sé, che ha fatto con la sua consacrazione. Sì, Nicola ha già dato tutto se stesso a Dio e Dio ha posto il suo irrevocabile sigillo di amore su di lui. Stasera egli compie un ulteriore gesto di radicalità: pone nelle mani del Signore la sua volontà, perché la sua vita si realizzi a totale servizio dei fratelli, ai quali vuol donare, attraverso il ministero ordinato, la gioia fresca e travolgente della sua fede.
Caro fra’ Nicola, la tua fede non dovrai imporla ma proporla, con la semplicità della testimonianza evangelica di una vita tutta impregnata di Dio. Non dimenticare quel che papa Francesco, sulla scia del suo predecessore Benedetto XVI, ripete continuamente, e cioè che la fede si dilata nel mondo per forza di attrazione. Nella proposta che farai a coloro a cui sarai mandato metti sempre al primo posto l’invito ad incontrare Colui che ha parole di vita eterna, perché “all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e, con ciò, la direzione decisiva” (Benedetto XVI, Deus caritas est 1).
Questo richiede da te – da noi pastori – la decisione di dare sempre nella vita il primato alla Grazia, che non è spiritualismo disincarnato ma adesione incondizionata a Cristo, che ci ha conquistato con la bellezza del suo sguardo e della sua proposta. Essere intimi di Colui che, scegliendoci, non ci chiama più servi ma amici, perché ci fa conoscere tutto quello che Lui ha udito dal Padre (cf Gv 15,15-16): sarà questa la tua – la nostra – aspirazione desiderata e coltivata! Solo così porteremo frutto duraturo ed eviteremo di cadere nella sterilità, un rischio sempre in agguato nella vita dei discepoli del Cristo! Essere amici del Cristo: è questa la realtà più vera nella vita dei pastori. Amici che hanno familiarità con il Maestro perché lo frequentano abitualmente, sono adusi alla sua Parola, sanno coltivare la comunione d’amore con Lui. Solo questa intimità permette di realizzare quella splendida parola pronunziata nella profezia della prima lettura: il Signore “mi ha nascosto all’ombra della sua mano”. Nascosto e custodito, perché sono io che cerco l’amato del cuore! Essere amico del Cristo: questo deve essere il maggior titolo d’onore per un pastore!
Dell’essere amico del Cristo si è del resto gloriato lo stesso Giovanni Battista, che si è lasciato afferrare dall’amore del Verbo eterno sin dal grembo materno. Quei sussulti di gioia di cui parla l’evangelista Luca, sono il segno tangibile di un legame che inizia da quel primo incontro e che si consoliderà nel tempo. Un’amicizia vissuta nella chiarezza dei ruoli. Mai Giovanni vorrà sostituirsi a Gesù. Egli era consapevole che il suo compito era quello di preparare la manifestazione del Signore e poi scomparire. A lui bastava gioire alla voce dello sposo. Per il resto, “Lui – Gesù – deve crescere e io, invece, diminuire”, dirà Giovanni a quei suoi discepoli che andranno a chiedergli se fosse lui il Cristo (cf Gv 3,25-30). Amico dello sposo: che bella definizione del presbitero! Io ti auguro di essere fedele amico di Colui che ha amato la Chiesa, facendola sua sposa per sempre, donando se stesso per lei (cf Ef 5,25). E proprio perché la Chiesa appartiene a Lui, tu devi – come dice l’apostolo Paolo – coltivare una specie di gelosia divina verso di lei, dovendola costantemente presentare allo sposo come vergine casta (cf 2Cor 11,2). Geloso della sua santità, della sua bellezza, dell’integrità della sua fede!
Quante conseguenze concrete vengono per la tua, per la nostra vita, di presbiteri. La Chiesa non è nostra, è di Cristo! Vigilare perché si mantenga integra, curarla con tenerezza, e mai cercare di possederla. La Chiesa che non è solo quella che vive l’assiduità degli incontri eucaristici, ma anche quella che intrisa di peccato, e che pur avendolo tradito, resta pur sempre di Cristo. Caro fra’ Nicola, coltiva la spiritualità dell’ospedale da campo, che ti porta a privilegiare non la comodità di una vita da single – tentazione sempre in agguato per noi consacrati – dove tutto è dovuto e gli altri sono al proprio servizio, bensì il coraggio del pellegrino che sa mettersi costantemente in cammino, per cercare l’uomo che può trovarsi nelle più disparate situazioni di vita: emarginazione, solitudine, sofferenza, povertà, inquietudine, disagi di ogni genere.
In questo hai un esempio straordinario nel serafico padre San Francesco, che pur avendo fatto la scelta di non essere prete, tuttavia ha vissuto l’essenza del sacerdozio di Cristo nell’offerta di tutto se stesso e nell’esercizio eroico della carità. Egli è stato il giullare di Dio, che in letizia e semplicità di cuore andava lì dove c’era un fratello da accudire, da curare, da amare. Non faceva distinzioni o, peggio, discriminazioni. Con tutti sapeva intrattenersi, a tutti sapeva donare la ricchezza del suo cuore innamorato pazzamente di Cristo. Carissimo fra’ Nicola, fa’ sì che il tuo cuore batta ogni giorno all’unisono con il cuore di San Francesco, avvertendo, nello stesso tempo, che il tuo deve raccogliere innanzitutto i palpiti del Cuore del Buon Pastore, da cui devi trarre ispirazione per le tue scelte ministeriali. Ritemprati ogni giorno nella contemplazione delle tante pagine evangeliche dove Gesù viene presentato nel suo pellegrinare da un villaggio all’altro, per annunciare il Vangelo del Regno e per beneficare e risanare tutti coloro che stavano sotto il potere del male (cf At 10,38). Non discostarti mai da questo modello divino, segui le sue orme e nei momenti di stanchezza e di fallimento rifugiati fra le sue braccia e poggia il tuo capo sul suo petto, per risentire nuovamente i fremiti del suo Cuore, che ti ridaranno coraggio per riprendere il cammino.
La tua famiglia cappuccina ti riceve oggi come dono prezioso e posso immaginare la gioia di tutti, a cominciare dal tuo Superiore provinciale, fra’ Alfredo Marchello, che saluto cordialmente e ringrazio per avermi offerto la splendida opportunità di presiedere questa solenne liturgia. Con lui saluto e ringrazio il Definitorio provinciale e tutte le fraternità che, presenti in diverse parti della nostra Regione, testimoniano l’attualità e la fecondità del carisma francescano cappuccino. Grazie, cari fratelli, continuate a portare il sorriso e la dolcezza di San Francesco nei vari luoghi in cui la mano provvidente di Dio vi conduce. E il Signore vi faccia ancora tanti doni come quello che viviamo oggi!
Concludo richiamando e riconsegnandoti un testo di San Francesco, che sicuramente in questi ultimi giorni, caro fra’ Nicola, avrai meditato spesso. È lui che attraverso la mia voce si rivolge a te suo figlio e ti dice: “Bada alla tua dignità, fratello sacerdote, e sii santo perché egli è santo. E come il Signore Iddio ti ha onorato sopra tutti gli uomini, con l’affidarti questo ministero, così tu amalo, riveriscilo, onoralo più di ogni altro uomo” (cf Lettera a tutto l’Ordine, in FF 220). Ti aiuti, in questo esercizio di conformazione alla santità di Dio, l’Immacolata Regina degli Angeli. Come è detto, nella Leggenda Maggiore, di San Francesco, anche tu circondala di indicibile amore, riponi in Lei, dopo Cristo, la tua fiducia, costituiscila tua avvocata. Sarai in buone mani! E con Lei accanto inizia ora il tuo ministero nella gioia e nel dono senza riserve di te a Dio e alla Chiesa. Amen